Qualche giorno fa è uscita sui media la notizia di due morti e un ferito grave sul lavoro a Milano. Un paio di giorni dopo alcuni quotidiani nazionali scrivevano dell’incriminazione di sette persone che avevano abbandonato in un fosso il corpo di un operaio in nero per occultarne la morte sul lavoro. Nomino questi due casi fra tanti altri perché possono far emergere certi aspetti del lavoro odierno, che ogni giorno, ogni settimana miete nuovi morti. In alcuni anni si registrano diminuzioni, in altri anni incrementi, ma morire di lavoro continua ad essere una minaccia costante.
Vediamo un po’ di dati: la fonte è l’INAIL, così sappiamo già che questi numeri sono un minimo da cui partire, poiché si tratta solo degli eventi denunciati.
Nel 2022 le persone morte sul lavoro sono state 1090. Tre al giorno, feste comprese. Non è un fatto accidentale, ma consolidato e costante. Nel 2022 sono aumentate le morti in itinere, +21% rispetto all’anno precedente. Qualche commentatore attribuisce l’incremento alla drastica diminuzione dello smart working, e certo questo ha influito mettendo più gente per strada, ma forse c’è dell’altro, e lo vedremo più avanti. Riguardo le caratteristiche personali, l’incidenza degli infortuni mortali fra lavorat* immigrat* è più che doppia rispetto a quella de* italian*. E se la fascia d’età più colpita è quella che va dai 55 ai 65 anni, l’incidenza più alta si registra fra * lavorat* con più di 65 anni. Gli infortuni non mortali colpiscono invece in maggioranza le fasce più giovani. Questi dati naturalmente si riferiscono solo al lavoro regolare, chi muore lavorando in nero di solito non finisce nelle statistiche ma nascosto in un fosso. E quasi mai riceve giustizia.
È importante rimarcare in modo chiaro che non sono “incidenti”, se non in minima parte, e che non è la fatalità a causarli. Sono la diretta conseguenza di condizioni volute e messe in atto da stato e padronato. I dati si possono leggere in tanti modi diversi, ma non è un azzardo affermare che la causa di queste continue morti – oltre che del peggioramento generale della vita de* lavorat* – sia infatti l’abnorme fame di profitto delle imprese, segnata dal generale scadimento delle condizioni di lavoro e dei salari, dalla sempre maggiore precarizzazione e dall’aumento dell’età pensionabile.
Cominciamo da quest’ultima: uno dei lavoratori morti a Milano aveva 55 anni, l’altro 69. Come mai stava ancora svolgendo un lavoro così duro e difficile, che richiedeva una concentrazione continua come potare alberi a 15 metri d’altezza? Forse non aveva ancora maturato i contributi richiesti dalle criminali riforme delle pensioni che si sono succedute dal ‘95 ad oggi e che ci obbligano a lavorare fino ad età un tempo ritenute folli. O forse li aveva maturati, ma l’esiguità – la miseria – della pensione lo obbligava ad arrotondare. Difficile saperlo, non ci sono stati molti approfondimenti giornalistici: il giorno dopo la notizia era già sparita.
Veniamo ai salari, che qualche anima bella potrebbe pensare slegati dalle cause degli infortuni, sbagliando clamorosamente. Sembra banale, ma va detto: chi lavora per paghe da fame è più ricattabile, è costretto a ritmi più incalzanti, a fare più ore, a stancarsi di più, a farsi più male. E non è un caso che i salari siano così bassi. Non è per caso che il potere d’acquisto de* lavorat* in Italia sia fermo al palo dall’inizio degli anni ’90. La causa è da cercare nelle politiche di moderazione salariale iniziate con gli indecorosi “accordi del 31 luglio” firmati proprio in quegli anni fra stato, padronato e sindacatume confederale, che cancellarono definitivamente la scala mobile e iniziarono la stagione dei contratti a perdere. Nessuno dei contratti nazionali firmati da allora si è mai nemmeno avvicinato a recuperare il potere d’acquisto dei salari, figuriamoci a segnare un aumento. Trent’anni dopo, * lavorat* sono sempre più pover* e ricattabili, le aziende sempre più ricche. Eppure, le stesse aziende piangono miseria, lamentandosi che il costo del lavoro in Italia è insostenibile, anche se nella realtà il costo del lavoro in Italia è sotto la media europea. Così lo stato trasferisce denaro pubblico verso le imprese sottraendolo alla spesa sociale, e chi lavora scivola sempre più verso la povertà, in un ciclo rinforzato. In tutto questo, il governatore della Banca d’Italia avverte di non aumentarli questi salari da fame, per carità, perché un po’ più di denaro in tasca a chi lavora aumenterebbe l’inflazione. Ma siamo sicuri che questo signore s’intenda di economia? Lo sa anche il gatto che l’inflazione odierna è causata dai prezzi dell’energia e da un mercato finanziario ipertrofico, drogato da montagne di moneta stampata dalle banche centrali, e non certo dagli alti salari. Ma questo è un altro discorso.
Un altro elemento da considerare è il costante peggioramento delle condizioni di lavoro, legate a filo doppio agli infortuni e alle morti. Il precariato in primis che, sdoganato dal famigerato “pacchetto Treu” – varato da un governo di centrosinistra – è ormai diventato la norma. Per le aziende la precarizzazione del lavoro è una pre-condizione indispensabile per avere mano libera nell’imporre ritmi sempre più serrati ed evitare l’utilizzo delle dotazioni di sicurezza. Pretendere carichi di lavoro commisurati alle proprie forze o il rispetto delle norme di sicurezza può voler dire essere messi alla porta allo scadere dell’ennesimo contratto a termine. Le norme di sicurezza in teoria dovrebbero proteggere dagli infortuni, o perlomeno minimizzare i rischi. Il problema è che la loro applicazione concreta e reale sia nei fatti una conseguenza della “buona volontà” dell’azienda. Sono norme facilissime da disattendere, perché hanno la caratteristica di poter essere facilmente applicate solo sulla carta. A livello formale le macchine hanno le protezioni montate, i dispositivi di sicurezza vengono consegnati a* lavorat*, che partecipano anche ai corsi di formazione e addestramento. Spesso però le protezioni vengono tolte dalle macchine per aumentare i ritmi di produzione (ricordate la giovane lavoratrice di Prato morta per questo due anni fa?) e i dispositivi di protezione vengono consegnati solo sulla carta, come sulla carta resta l’addestramento alla sicurezza. Così ad un’eventuale ispezione l’azienda risulta virtuosa e in regola, e la colpa è di chi si fa male.
Ancora, carichi e ritmi di lavoro in costante aumento fino al cosiddetto “burnout (insieme di sintomi che deriva da una condizione di stress cronico e persistente, associato al contesto lavorativo – ndr)” sono ormai la norma, specie in alcuni settori come la sanità e la logistica, non a caso due dei settori con la maggiore incidenza di infortuni e mortalità, oltre alle manifatture e all’edilizia. Oltre alla fame di profitto delle aziende, anche il sistema delle esternalizzazioni e degli appalti pubblici ha enormi responsabilità in merito. L’esternalizzazione perché prevede l’affidamento di parte del processo produttivo ad aziende esterne, spesso finte “cooperative” nelle quali * lavorat* sono formalmente soci e non dipendenti, lavorano come muli e hanno minori tutele. Gli appalti pubblici perché prevedono il sistema capestro del massimo ribasso e le aziende, non potendo risparmiare più di tanto sui materiali, spremono all’osso chi lavora. I carichi e i ritmi di lavoro sono anche responsabili, a mio modo di vedere, dell’aumento della mortalità in itinere di cui scrivevo all’inizio. Mettersi in strada dopo un turno estenuante aumenta i rischi in modo esponenziale. Ma questo è solo un parere personale, e sarebbe interessante che qualche espert* di statistica facesse un piccolo studio in merito.
E si potrebbe continuare con altre considerazioni, ma intanto una conclusione la possiamo tirare. Infortuni, malattie professionali e morti sul lavoro sono organiche al sistema di produzione capitalista, non sono accidentali, non derivano da disattenzione o fatalità. Al contrario, in questo sistema sono inevitabili. Possono oscillare di qualche punto percentuale, ma non scomparire. E ricordiamoci sempre che questi punti percentuale rappresentano persone ferite, ammalate o morte, vite rovinate in nome del profitto. Verrebbe da pensare che ce ne sia abbastanza per una dura reazione di classe, per scioperi immediati e spontanei a ogni nuova morte, ma non succede niente. Anche mentre scrivo queste righe apprendo che un altro operaio è morto schiacciato, ma non si registrano proteste di nessun tipo. Il pluridecennale pompieraggio sociale messo in campo dai cosiddetti partiti di sinistra e dai sindacati di stato ha convinto la stragrande maggioranza delle persone che il binomio stato-capitalismo sia l’unico sistema economico e sociale possibile, e che lo si possa correggere pian piano per eliminarne le storture. Il trito e ritrito riformismo. Parimenti, gli stessi soggetti si sono accreditati come unici titolari dell’iniziativa politica e sindacale, lasciando a cittadin* e lavorat* un ruolo di seguito passivo. La trita e ritrita delega.
Noi anarchic* non abbiamo una ricetta facile e di sicura efficacia per cambiare questo stato di cose, magari l’avessimo. Abbiamo invece qualcosa di difficile. Non è una ricetta, ma un modo di pensare e di agire. Pensare a qualcosa di meglio e agire in prima persona per ottenerlo. Pensare che le morti sul lavoro sono assassinii in nome del profitto e che non solo si debba bloccare la produzione e scendere in strada ogni volta che succede, ma agire per non farlo succedere. Mettersi in mezzo assieme a* propr* compagn*sul luogo di lavoro. E nel frattempo spingersi più avanti, cercando il modo di togliere la produzione dalle mani dei padroni. Inventarsi qualcosa di nuovo, mentre cerchiamo di contenere i danni e salvare le vite nostre e di chi lavora con noi. Non col riformismo e la delega ma con la lotta e l’azione diretta.
Ed è urgente iniziare subito, perché la sola cosa sicura è che questo stato di cose non è più accettabile.
J. Scaltriti